La Traviata per la regia di Robert Carsen, già presentata come spettacolo inaugurale del 2004 dopo la ricostruzione della Fenice, è ormai un leitmotiv caratteristico del cartellone veneziano di settembre che si ripropone ogni anno all’arrivo dell’autunno.
L’allestimento pare non invecchiare e offre sempre, attraverso una visione amara e disincantata degli eventi, nuovi spunti di riflessione allo spettatore. Scene e costumi di Patrick Kinmonth riportano la vicenda agli anni Settanta del Novecento, fra i bagordi di una società fatua e materialista che si destreggia abilmente fra feste e divertimenti, mettendo da parte valori e sentimenti. Il sipario si apre con una Violetta sdraiata su di un letto, in negligé. Durante l'ouverture ella viene, per così dire, ricoperta di denaro dagli innumerevoli clienti che invadono la stanza, cui si accede attraverso una grande porta, completamente arredata giocando sulle tonalità del verde scuro. Improvvisamente, all'inizio del primo atto, irrompe la folla degli amici, recando tavolini e suppellettili: ecco che inizia la festa. Tutto è curato nei minimi particolari: l'arredamento è di lusso e mescola sapientemente specchiere dorate e velluti ad elementi moderni quali la televisione o le tipiche appliques di vetro anni Settanta; a capo del letto troneggia l'immagine di alcuni alberi dalle tonalità verdi e giallastre. I convitati si muovono a meraviglia in questo ambiente, dispensando con dovizia baci, rigorosamente dati sfiorando appena la guancia dell'altro, abbracci e sorrisi artefatti. Alfredo è così invaghito di Violetta che seguita a fotografarla ad ogni suo spostamento, cercando di cogliere in ogni istante la bellezza della donna; ella, dal canto suo, rimane intimamente prostituta, tanto da finire per amoreggiare col barone anche dopo le riflessioni intimistiche della fine del primo atto. Registicamente geniali l'improvviso ingresso del pianoforte bianco seduto al quale Alfredo intona il famoso brindisi e l'arrivo del dottore che somministra, attraverso un'iniezione nell'avambraccio, un farmaco a Violetta quand'ella accusa il primo malore.
Tanto è opulenta l'ambientazione iniziale, tanto è semplice quella che ci si presenta al secondo levar di sipario, quasi a sottolineare il mutamento di vita della coppia: gli alberi che si intravedevano a guisa di poster a capo del letto nel primo atto fanno ora da sfondo ad una scena per il resto completamente vuota. La realtà sociale di fondo non cambia, ce lo ricordano la pioggia di soldi che cade incessante dal cielo e la mazzetta di denaro profferta, a parziale compenso del sacrificio, da Germont a Violetta durante il loro incontro. Un cambio di scena repentino, grazie al fondale che si alza, e lo spettatore si trova, più che a casa di Flora, in un night club dalle luci scure e soffuse con tanto di teatrino dal sipario argentato per l’esibizione di strippers e cow-girls. Nulla è cambiato: fatuità e voglia di divertirsi sono rimaste immutate, così come il tema del denaro che, secondo copione, Alfredo scaglierà in viso a Violetta.
L'apogeo di tutta questa vacuità dello spirito appare però nel terzo atto nel quale viene ripresa, anche se con caratteristiche ben diverse, l’ambientazione iniziale: la stanza è stata spogliata del mobilio, è rimasta solo la tv rovesciata a terra che trasmette il grigio segnale di fine trasmissione, la tappezzeria verde è strappata: vi sono lavori in corso. La protagonista muore fra l'indifferenza generale, per terra, in sottoveste, indossando scarpe col tacco, quasi a sottolineare l'ultimo legame col passato. Alcuni giovani che partecipano al carnevale irrompono in un delirio di festa senza accorgersi del dramma che si sta consumando, il dottore viene in visita, pratica di nuovo un'iniezione, ma pretende di essere pagato da Annina; al momento del decesso arrivano persino gli operai per completare i lavori.
Davvero buone le prestazioni dell’orchestra e del coro del Teatro la Fenice, quest’ultimo particolarmente convincente sia da un punto di vista vocale, sia da un punto di vista scenico. Sul podio il maestro Diego Matheuz ha staccato tempi serrati dando una lettura essenziale, pulita, quasi scabra della partitura in accordo con una regia poco incline a mettere in luce i sentimentalismi.
Nel ruolo del titolo una Jessica Nuccio forse in forma meno smagliante di quanto non ci fosse parsa nella scorsa edizione: la voce limpida e ben timbrata, l’estensione notevole, gli acuti che svettano squillanti e riempiono la sala, la presenza scenica sicura fanno in ogni caso dimenticare alcune lievi incertezze di intonazione. Ji-Min Park è un Alfredo Germont giovane e ardente, dal timbro leggero, molto solido in acuto, meno sonoro nel registro centrale, vocalmente forse ancora un po’ acerbo. Notevole sotto tutti i punti di vista la prestazione di Giovanni Meoni nel ruolo di un Giorgio Germont estremamente sobrio, serio e leggermente ingessato come si conviene ad un borghese di rango; la voce è morbida, calda, avvolgente.
Teatro colmo come sempre; il pubblico, in gran parte straniero, ha tributato a tutti gli artisti numerosi applausi.
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